Farsi largo tra l’erba medica e i papaveri, intrattenersi con le farfalle che si assopiscono sui ramoscelli dei lillà, riconoscere l’avena sativa, raccogliere gli iris ai lati dei sentieri, indugiare sull’austerità delle calle, liberare gli angeli di un soffione, scorgere una capinera timorosa visitando il boschetto delle artemisie, odorare gli orti appena innaffiati, confrontare la propria mano con una foglia di fico, osservare le cortecce dei platani e i gusci delle noci, udire il canto dei salici, scricchiolare su un selciato di foglie friabili, rimirare le filigrane in controluce, assumere la stessa posa dei rami ritorti e sfrondati dei gelsi, arruffare le chiome dei cespugli aromatici: un giardino è un’incredibile occasione d’intimità, per sperimentare l’essere come un poter-essere, per trasfigurare il corporeo in onirico e tramutare il peso in volo.
“Non era abbellirvi” non va tradotto, ma un racconto si snoda.
E’ osservare il buio materno ed il lento comporsi della vita, i quali non vanno mai perduti.
E’ diventare corpo delle cose ed essere già luce, spingersi in avanti per raggiungersi.
Ovvero essere il sé, che preme sui contorni della carta per originare la massima quantità di cielo, al modo del seme sull’orlo della terra, che non rifiuta la sua evoluzione, non teme di cedere la sua sostanza, non ha paura di perdere la forma.
Essere il moto, comporre, cioè, un segno, la cui mostra è un estremo speculare.
Essere la congiunzione: fra la malinconia e l’intenerimento, fra il transitorio e l’invariabile, fra il caduto e l’eterno.
Essere la coniugazione, secondo il modo, il tempo e l’aspetto.
Essere la furia degli elementi, rivelata in corolle, sublimata.
Essere la bellezza senza domande, e passare.
Essere inesorabile e fragile, come un ritorno.
Essere un’ aura, l’emanazione di un calore, altro e proprio, immateriale e vivissimo come una visione. A cui nulla aggiungere, per quelle anime che possono accenderla nel proprio sentire.